Il Lupo nella letteratura

Di Stefano Santarsiere (le immagini sono tratte dal  Centro Uomini e lupi di Entracque)

“In un mondo di lupi, solo i lupi possono sopravvivere”

Vita grama, quella del nostro amico nella letteratura.
O forse, a ben vedere, posto d’onore nel palcoscenico degli spauracchi, dei simboli di terrore, dell’incarnazione stessa dei peccati dell’umanità.
Fin dall’antica Grecia il lupo è personificazione della gola, intesa come fame, avidità sfrenata, ovvero quel motore di conflitti che romba sommessamente sullo sfondo della storia umana. Fedro rappresenta l’istinto scellerato nel dialogo senza speranza della favola ‘Il lupo e l’agnello’. “Perché mi hai intorbidato l’acqua proprio mentre bevevo?”. Ma l’agnello risponde impaurito: “Scusa, lupo, come posso fare quello che recrimini? È da te che scorre giù l’acqua fino alle mie labbra”. Allora il lupo esclama: “Sei mesi fa hai sparlato di me.” E l’agnello ribatte: “Ma se non ero ancora nato!” “Perdio!”, sbotta il lupo, “è stato tuo padre a sparlare di me.”

Prezzemolo Personaggio delle favole della Casa del lupo di Entraque

Molti lupi, ben più sofisticati nel vestire e nel parlare, si sono succeduti dopo quello di Fedro, non limitandosi però a sbranare agnellini. Perché in fondo questa creatura rappresenta da sempre il lato oscuro dell’animo umano, l’alter ego zannuto con il quale siamo chiamati a confrontarci per cogliere qualcosa in più di noi e forse del nostro stesso destino.
Ma indugiando nel mondo delle favole, vediamo il lupo inseguire fanciulle nel bosco (Cappuccetto Rosso, di Charles Perrault), divorare ignari porcellini (I tre porcellini, di James Orchand Halliwell), farsi minaccia perfino quando se ne sta buono e non intende aggredire proprio nessuno (Al lupo! Al Lupo!, di Esopo).

Oggi chiameremmo tutto ciò ‘campagna mediatica’, ma nel mondo della pedagogia il ruolo di questa creatura è forse meno disonorevole di quanto appaia. In fondo, tocca pure a qualcuno incarnare pericoli e minacce a beneficio delle giovani menti.
Anche l’immaginario religioso ha contribuito non poco a disegnare intorno a questa creatura un’aura di malvagità, se non addirittura di diabolicità. Forse per via del suo comportamento elusivo, o per la tendenza (del resto comprensibile) di cibarsi di animali morti. Nel Vangelo è citato come bestia demoniaca. Molti Padri della Chiesa lo useranno come metafora per gli eretici o gli uomini del demonio. Sulla scorta di questo atteggiamento verrà sterminato dalle grandi case monarchiche, da Carlomagno fino al Settecento, attraverso corpi speciali di cacciatori di lupi che hanno talvolta operato fino al Novecento. Solo il frugale San Francesco d’Assisi, santo ambientalista per antonomasia, si degnerà di salvarne uno nel celebre episodio del lupo di Gubbio.

Ma l’ardimento umano non si è limitato a caricare il povero animale di questo scomodo fardello simbolico, ne ha persino ingigantito le pieghe d’orrore, tracimandole nella mitologia del lupo mannaro. L’immondo incrocio tra uomo e lupo, estensione della malvagità umana che si rivela nelle notti di plenilunio sotto forma di essere ululante. In questo versante le opere letterarie e cinematografiche sono innumerevoli. Tralasciando i prodromi della letteratura greca o latina, citerei il capostipite riconosciuto, ovvero ‘Wagner l’uomo-lupo’, di Georg William Reynolds, e gli esemplari successivi e più sofisticati del romanzo d’avventura o della ‘ghost-stories’, fra cui i bellissimi ‘Il Marchio della Bestia’, di Rudyard Kipling e ‘Il Campo del Cane’, di Algernon Blackwood. La metafora dell’indistruttibilità del licantropo, salvo tirargli al cuore una pallottola d’argento, esprime l’ostinazione del male, che è pur sempre un prodotto dell’animo umano. Ed è forse questo l’aspetto che maggiormente ci spaventa, più ancora della mesta rappresentazione dell’uomo trasfigurato in animale e costretto – chissà perché – a ululare alla luna.
Per fortuna, la letteratura per ragazzi ha contribuito a introdurre una stagione di ‘riconciliazione’. Riconciliazione tra la figura del lupo, come fiera creatura della natura, e l’uomo, che dal canto suo non è quasi mai senza peccato. Riconciliazione che non può, tuttavia, prescindere dal distacco e dalla libertà dell’animale affrancato dal dominio umano.
‘Il richiamo della foresta’, di Jack London è la storia non di un lupo, bensì del cane Buck e del suo insopprimibile istinto a riguadagnare, appunto, l’origine selvatica nel cuore dei boschi nordamericani. L’animale oscilla tra il profondo affetto per un uomo, il cercatore d’oro John Thorton come ultimo contatto con la civiltà umana, e l’attrazione sempre più intesa verso la foresta e la natura. Durante una delle lunghe assenze del cane, John viene brutalmente assassinato da una tribù indiana. Buck, di fronte al corpo esanime del suo padrone, si getta forsennatamente tra gli indiani che festeggiano attorno al fuoco l’esito della loro incursione, uccidendone molti, disperdendo gli altri. E così, rotto anche quest’ultimo legame con l’uomo, Buck scivola per sempre nel buio della foresta selvaggia, unendosi a un branco di lupi.
Come non vedere, in questo incredibile epilogo, la riscossa non solo dell’animale ma forse di un intero stato di natura, di un intero mondo deluso irrimediabilmente dalla crudeltà umana? E ancora (ma forse più prosaicamente), come non sorridere dinanzi alla riscossa tutta letteraria del lupo che, sfruttato lungamente dall’uomo per i suoi fini narrativi, ritorna nella sua dimensione reale?

E’ anche da opere letterarie come ‘Il Richiamo della Foresta’, e più in generale dalla cultura neo-ambientalista della seconda metà del novecento, che si svilupperà un atteggiamento nuovo verso il lupo, più attento a osservarne le caratteristiche uniche e salvaguardarne l’esistenza.
Oggi il lupo è assurto a una simbologia ben più complessa. Non è l’ombra cattiva che ci insegue nel bosco, è qualcosa che ci portiamo dentro come un fratello nascosto. E’ il ‘noi stessi’ che ci ricorda che malgrado le sovrastrutture sociali ed economiche edificate intorno a noi, siamo pur sempre un prodotto della natura, e l’inquietudine che avvertiamo è il ricordo struggente e sempre più lontano delle nostre origini, che ci ostiniamo a dimenticare.
In quest’ottica, il romanzo-chiave è probabilmente ‘Il lupo della steppa’, di Herman Hesse.
Il protagonista del libro è un intellettuale sulla cinquantina che, in un manoscritto abbandonato prima della sua misteriosa scomparsa, descrive il disagio della sua natura segnata da un profondo dualismo: l’umanità, cioè l’amore per l’arte e il divino, la nobiltà d’animo e di pensiero; e la bestialità (il ‘lupo’), alla costante ricerca dei piaceri selvaggi, ai quali si abbandona per carenza di comprensione del mondo in cui si trova costretto a vivere. Egli, infatti, non riesce più a trovare posto in un contesto governato da valori che non accetta, un mondo che ha relegato gli ideali più alti (pace, amore per la musica classica, la filosofia…) in un angolo buio e privo di importanza. Di qui, l’isolamento del protagonista e il suo mancato riconoscimento di una società che cambia in modo tumultuoso.
Un protagonista-lupo, quindi. Ma non nel senso gotico del termine, bensì più moderno, dove non c’è spazio per trasformazioni spettacolari o scarnificazioni alla luce del plenilunio. L’uomo si fa lupo volontariamente, poiché sfugge ai compromessi di una modernità che non condivide.
E mentre ciò accade, e osserviamo con nostalgia e sollievo il ritorno di questo animale sulle nostre montagne, ci domandiamo dove sia la strada che ci porta a lui.
Perché in fin dei conti, nascosto nel fitto del sottobosco, oltre i sentieri sepolti dalla neve, il lupo è a noi che ulula, ricordandoci che in quel mondo che abbiamo abbandonato alberga da sempre il nostro spirito più autentico.

 

2 commenti su “Il Lupo nella letteratura”

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