Di Ettore Randi – ettorerandi17@gmail.com
Quando le femmine e i maschi di lupo si incontrano per la riproduzione, diciamo che si accoppiano. Poi le coppie riorganizzano i gruppi familiari che delimitano e difendono i loro territori, partoriscono, allevano e svezzano i cuccioli, i quali prima o poi si allontanano in dispersione, e così via, riproducendo i cicli sempre uguali e sempre diversi della biologia della loro specie. Quando si incontrano lupi e cani pronti per la riproduzione, diciamo che si incrociano, generando cucciolate di ibridi di prima generazione (che i genetisti chiamano con la sigla F1). L’ibridazione è il risultato dell’incrocio fra riproduttori che provengono da specie o sottospecie diverse, come pure da popolazioni non necessariamente identificate con nomi distinti, ma che comunque sono distinguibili geneticamente e/o morfologicamente (fenotipicamente). In passato si chiamavano ibridazioni solo gli incroci fra specie diverse, si pensava che negli animali fossero rare e che producessero quasi sempre prole sterile. Poi le migliori conoscenze di sistematica, biogeografia e genetica delle popolazioni naturali hanno dimostrato che moltissime specie, considerate valide da tutti gli esperti di sistematica, possono incrociarsi e generare ibridi vitali e fecondi. Impossibile quindi limitare la definizione di ibridazione a rari e sterili incroci fra “specie” diverse. Contemporaneamente, nel difficile tentativo di descrivere la biodiversità, sono state proposte almeno 20-25 differenti definizione di “specie”. È difficile che la sterminata diversità dei batteri e degli altri organismi unicellulari, dei funghi, piante e animali, sia riducibile a definizioni troppo schematiche. In tutti i grandi gruppi di organismi viventi, dagli unicellulari ai primati, conosciamo ben documentati casi di scambio di materiali genetici fra membri di popolazioni differenziate. Nei passati millenni anche i nostri antenati Homo sapiens si sono incrociati con altre “specie” di Homo: i neanderthal e i denisova, per esempio. Per i biologi evoluzionisti, questa è la logica conseguenza dell’evoluzione darwiniana. Di solito le specie non si separano in un attimo, ma dopo percorsi che possono continuare per centinaia di migliaia di anni. Durante questi periodi, le specie in formazione possono incrociarsi generando gruppi di ibridi che trasmettono i loro genomi misti ai discendenti. La trasmissione ereditaria di geni da una popolazione all’altra tramite ibridazione, si chiama introgressione. Anche noi sapiens siamo “introgrediti”: le nostre attuali popolazioni ospitano dal 2% al 4% di geni ereditati dai neanderthal.


L’ibridazione naturale è frequente, aiuta l’evoluzione e può favorire l’origine di nuove specie. L’ibridazione antropogenica è dovuta ai nostri impatti sugli ambienti e sulle popolazioni naturali. Spesso ha conseguenze negative per la conservazione della natura. Per esempio, l’introduzione di specie alloctone che ibridizzano con popolazioni autoctone può compromettere gli adattamenti locali, ridurre la vitalità degli ibridi e distruggere la biodiversità. Particolarmente preoccupanti sono i casi di ibridazione fra animali selvatici e le corrispondenti popolazioni addomesticate, nel nostro caso lupi e cani. Il lupo Canis lupus è la sola specie che sia stata addomesticata originando il cane domestico Canis lupus familiaris, (o Canis familiaris, a seconda delle preferenze, ma la sostanza è la stessa: i cani sono lupi addomesticati). La genetica ha dimostrato che non ci sono stati contributi da altre specie, come in passato si supponeva, per esempio, dallo sciacallo. Lupi e cani sono conspecifici, non hanno ostacoli biologici ad incrociarsi, i cuccioli ibridi sono vitali, fertili e possono continuare a riprodursi. Negli ultimi 70-80 anni, le popolazioni di lupo in Italia e altrove hanno avviato un ciclo di espansione straordinario, che ancora non si è concluso. I lupi hanno incontrato cani padronali vaganti, oppure randagi, ferali, in alcuni casi forse anche inselvatichiti, frequenti soprattutto nelle aree più abitate dei paesi attorno al Mediterraneo. In Italia, abbiamo almeno 3.330-3.600 lupi, molti dei quali vivono in condizioni di potenziale compresenza con ben 800.000 cani almeno temporaneamente vaganti. Sappiamo che l’ibridazione con i cani è diffusa in alcune località, ed è considerata uno dei principali fattori di rischio per la conservazione del lupo. Le conseguenze dell’ibridazione però sono ancora poco note.


Nelle popolazioni naturali gli ibridi di prima generazione (F1) spesso continuano ad incrociarsi fra di loro generando ibridi di seconda generazione (F2) e così via (F3 … ecc.). Questi sciami ibridi sono stabili in aree territoriali dove praticamente tutti gli individui sono ibridi. Nell’ibridazione fra lupi e cani, la formazione di sciami ibridi è improbabile, perché, almeno in Italia, i cani vaganti non formano popolazioni ferali o inselvatichite stabili. È possibile che si formino singoli o pochi nuclei familiari adiacenti composti prevalentemente da ibridi, che permangono per qualche generazione, ma non disponiamo di dati empirici per valutare l’entità di queste situazioni. Invece è molto ben documentato un altro fenomeno, il reincrocio. Quando gli ibridi F1, F2 ecc. …, vengono accolti nelle famiglie di lupi possono re-incrociarsi ripetutamente con lupi puri nel corso delle generazioni. L’esito di reiterati reincroci è la progressiva diluizione del genoma di cane nella popolazione selvatica, con possibilità di introgressione di alcuni geni. Semplificando, da un punto di vista teorico, ad ogni generazione di reincrocio la componente genetica domestica si dimezza. Gli ibridi F1 contengono 50% di geni di lupo e 50% di cane. La prima generazione di reincrocio degli F1 con lupi conterrà il 75% geni di lupo e 25% di cane. Nella seconda generazione di reincrocio la componente domestica sarà ridotta al 12,5%; nella terza sarà del 6,2%; nella quarta del 3,1%; nella quinta del 1,5% e così via. La mortalità in natura è molto alta, e ogni generazione selvatica viene quasi completamente sostituita ogni 2-4 anni. Perciò cinque generazioni di reincrocio si formeranno in circa 15-20 anni, mediamente, dopo di che la percentuale di geni domestici nei lupi sarà meno dello 0,75%, e così via. In questo periodo di tempo la selezione naturale potrà agire eliminando più rapidamente eventuali geni domestici dannosi per la sopravvivenza in natura, e quindi la diluizione sarà più rapida. È anche possibile, ma forse improbabile, che alcuni geni domestici entrino più velocemente e rimangano nella popolazione selvatica perché conferiscono qualche vantaggio adattativo ai lupi. Questo potrebbe essere il caso della mutazione genetica che produce il mantello nero nei lupi.



Agli inizi del 2000 un gruppo di ricercatori in un dipartimento di Medicina dell’Università di Stanford (CA) stava cercando geni che potessero causare i melanomi umani, forme gravissime di tumori della pelle. Usando i cani come specie modello trovarono che il mantello nero, melanico, dei pastori tedeschi e razze affini, era stranamente determinato da una mutazione ad un gene chiamato -defensina-103 (CBD103). Le defensine appartengono ad una numerosa famiglia di geni che producono proteine collocate sulla superfice cellulare dell’epidermide, del sistema respiratorio, intestinale e nei genitali. Come suggerisce il loro nome, agiscono come antibiotici naturali, contrastando le infezioni batteriche. Quindi, apparentemente, non c’entrano nulla col colore del pelo. Ma si capì subito che la CBD103 ha anche almeno un’altra funzione: agisce sui melanociti, le cellule che controllano il colore della pelle e dei peli aumentando enormemente la produzione di pigmento nero, la melanina. In Nord America e Canada esistono popolazioni composte anche per il 50% di lupi neri, che non erano stati quasi mai segnalati in Europa o Asia, con l’eccezione di alcune aree dell’Appennino italiano, dove lupi neri o più scuri del normale sono piuttosto frequenti. Al Laboratorio di genetica della conservazione dell’INFS (ora in ISPRA), cercammo immediatamente la collaborazione dei nostri colleghi americani, genetisti della fauna selvatica, per un programma di ricerca per accertare: 1) se i mantelli neri dei lupi fossero determinati dalla stessa mutazione alla CBD103 trovata nei cani; 2) se la mutazione alla CBD103 potesse essere originata indipendentemente in cani e lupi, oppure se si trattasse di un caso di introgressione genetica a seguito di episodi di ibridazione. I risultati delle analisi molecolari indicarono come molto probabile l’antica origine della mutazione nei cani, successivamente trasmessa ai lupi nel corso di ripetuti eventi di ibridazione, più anticamente in Nord America e più recentemente in Italia. I lupi neri americani sono di antica origine ibrida e attualmente sembrano privi di altre tracce genetiche di introgressione. La situazione nei lupi neri trovati in Italia, e poi anche in altri paesi europei, è più complessa. Abbiamo lupi melanici apparentemente privi di altre tracce di introgressione, ma anche lupi con più o meno evidenti tracce di ibridazione recente. Studi di paleogenetica hanno mostrato che quasi tutte le specie viventi di Canis hanno sperimentato ripetuti ed antichi eventi di ibridazione. Non solo i lupi, ma anche altre specie, come sciacalli e coyote, hanno ibridizzato e ancora ibridizzano anche con i cani domestici. La mutazione melanistica alla CBD103 è stata identificata in reperti di cani antichi, di circa 10.000 anni fa. Recenti studi di evoluzione molecolare e di genetica delle popolazioni suggeriscono che la mutazione melanistica possa conferire vantaggi adattativi agli ibridi, forse dovuti a forme di resistenza innata ai patogeni. Tuttavia, i legami fra CBD103, mantello nero e resistenza alle malattie infettive restano ancora da comprendere approfonditamente.



A parte le variazioni di colore del mantello, che sono facilmente osservabili, altre possibili variazioni morfologiche derivanti dall’ibridazione (unghie bianche, sperone nelle zampe posteriori, orecchie, variazioni di forma generale del corpo, del cranio, della dimensione degli adulti, ecc.) sono difficilmente utilizzabili per identificare gli ibridi. Con l’aiuto delle analisi genetiche possiamo identificare (con alcune limitazioni) anche ibridi che non presentano evidenti anomalie fenotipiche, tramite: 1) il DNA mitocondriale (mtDNA), una piccola molecola circolare abbondante nei mitocondri e perciò trasmessa esclusivamente tramite le madri (i mitocondri sono abbondanti delle cellule uovo, ma praticamente assenti negli spermatozoi); le sequenze di mtDNA di lupi e cani sono quasi sempre distinguibili; 2) il cromosoma Y che determina il sesso maschile ed è trasmesso esclusivamente dai padri; i cromosomi Y di lupi e cani hanno alcune sequenze differenti e distinguibili; 3) marcatori genetici distribuiti in tutti i 76 (più X e Y) cromosomi di C. lupus, e quindi ereditati sia dalle madri che dai padri, come i microsatelliti (STR) e le mutazioni singole (SNP); i genomi di lupi e cani presentano milioni di differenti STR e SNP utilizzabili anche per lo studio dell’ibridazione; 4) l’identificazione di singole mutazioni che producono ben identificate variazioni fenotipiche, come la mutazione melanistica alla CBD103. Le analisi del mtDNA possono documentare esclusivamente gli esiti degli incroci fra lupi maschi e femmine di cane. I reincroci di questi F1 consentono l’introgressione di mtDNA di cane nella popolazione di lupo, e quindi sono identificabili. I risultati di numerose ricerche in Italia e altrove però indicano che sono molto più frequenti gli incroci fra femmine di lupo e maschi di cane, i cui F1 contengono mtDNA di lupo e quindi non sono identificabili come ibridi. Perciò l’analisi del solo mtDNA non è sufficiente a stimare la frequenza degli ibridi. Attualmente analizzando un set completo di marcatori: mtDNA, Y, qualche decina di STR e qualche migliaio di SNP, è possibile identificare con sicurezza solo gli ibridi F1 e F2 e i reincroci di prima, seconda e terza generazione. Questi ibridi recenti sono presenti con frequenze del 5%-10%, variabile nelle diverse popolazioni europee. Sono state individuate introgressioni più antiche tramite l’analisi della CBD103. Lupi melanici sono stati trovati anche in altri paesi euroasiatici. Alcune popolazioni non hanno ibridi e anche i cani vaganti sono presenti con frequenze differenti nelle varie regioni dell’Eurasia. È bene chiarire che quasi nessuna raccolta di campioni biologici è stata fatta seguendo procedure statisticamente rigorose e destinate a fornire stime affidabili di ibridazione. Inoltre, ancora oggi la maggioranza dei paesi europei non fa regolari monitoraggi standardizzati, anche se sono in corso alcuni lodevoli tentativi di cooperazione, per esempio fra i paesi delle regioni alpine, in Scandinavia o fra alcuni paesi dell’Europa centrale. In conclusione, i dati pubblicati fino ad ora sono poco indicativi della reale prevalenza dell’ibridazione in Europa. È auspicabile che nel prossimo futuro si possa arrivare a costruire un database standardizzato dei genotipi delle popolazioni europee di lupo. Ma queste sono decisioni politiche ed amministrative, come lo sono le decisioni che i responsabili della conservazione della fauna selvatica dovrebbero prendere per realizzare azioni di contrasto dell’ibridazione. Da qui in poi la genetica e la biologia della conservazione si fermano.
Le decisioni gestionali spettano alle autorità competenti, che dovrebbero comunque tener conto delle indicazioni della scienza. Perché l’ibridazione antropogenica dovrebbe essere contrastata? Perché l’integrità genetica delle popolazioni selvatiche di lupo deve essere tutelata, anche a norma di legge. Il randagismo canino, in qualsiasi delle sue forme, origina dalla cattiva gestione dei cani domestici. È impossibile che, nelle condizioni di enorme sproporzione fra il numero di cani liberi di vagare ed i lupi, l’ibridazione sia contenibile se non riducendo efficacemente il randagismo. Questa litania ormai viene ripetuta da decenni, ma, soprattutto nel nostro paese, non si riescono ad attivare azioni che riducano il randagismo tutelando contemporaneamente la vita ed il benessere degli incolpevoli cani. I programmi LIFE che recentemente sono stati dedicati al contrasto all’ibridazione, hanno prodotto importanti risultati metodologici, ma sono riusciti a rimuovere dal territorio solo pochissime decine di ibridi. Nello stesso periodo di qualche anno sono presumibilmente venuti al mondo centinaia di nuovi ibridi. Contrastare l’ibridazione non significa in alcun modo aprire la caccia agli ibridi, anzi esattamente il contrario. Per non danneggiare lo stato di conservazione della popolazione e per non violare le norme di protezione dei lupi, ogni sospetto ibrido per prima cosa deve essere catturato, identificato geneticamente e certificato, da vivo. Gli ibridi certificati devono essere recintati e sterilizzati. Poi disponiamo di due opzioni: 1) la captivazione permanente, opzione costosa ma che farebbe contenti gli allevatori; 2) la liberazione degli animali nelle zone dove sono stati catturati, in modo che possano reinserirsi nei branchi d’origine. Questa è la soluzione migliore, perché non destabilizza la struttura dei branchi, ed impedisce che i territori vengano occupati da altri lupi o ibridi in dispersione. Probabilmente non è la soluzione preferita dagli allevatori di bestiame, ma per loro esistono importanti strumenti di indennizzo e soprattutto di prevenzione delle predazioni. La cattura dei lupi è difficile e costosa e la rimozione degli ibridi è praticabile e risolutiva solo in quelle aree dove gli ibridi sono rari, come per esempio nelle regioni alpine. Diventa molto più difficile ed inefficace nelle aree dell’Appennino occupate da branchi composti in prevalenza da ibridi. Che fare in questi casi? Quando possibile, gli ibridi vanno rimossi, ma in sinergia con programmi pluriannuali di contenimento del randagismo, altrimenti non si risolve nulla. Dove il randagismo è minimo, la rimozione tempestiva dei rari F1 consentirebbe di controllare efficacemente l’ibridazione. Quali altri ibridi andrebbero rimossi? Il livello di ibridazione accettabile in una popolazione di lupi non può essere deciso dalla scienza, ma solo dagli organi amministrativi, meglio se con il consenso informato degli stakeholder e dei residenti. Attualmente è difficile identificare con sicurezza a costi moderati i reincroci più vecchi di 3-4 generazioni. Per migliorare le identificazioni, esiste la possibilità di sequenziare ampie porzioni di interi genomi di cani e lupi, ma a costi forse ancora insostenibili per azioni di monitoraggio e controllo degli ibridi. Ma avrebbe senso investire importanti risorse per rimuovere i discendenti di vecchi reincroci che, come abbiamo visto, ormai contengono solo percentuali minime di geni domestici? Forse non avrebbe senso. Nel corso di pochi decenni di introgressione la diluizione statistica e la selezione naturale hanno il tempo di ridurre al minimo la presenza di geni domestici nella popolazione selvatica. Anche in questi casi, per interrompere la catena dei reincroci, resta importante la rimozione tempestiva degli F1. Ha senso la rimozione selettiva di animali con caratteri morfologici anomali? Sarebbe una strategia poco efficiente che lascerebbe spazio alla rimozione inaccettabile di lupi, se confusi con ibridi. Che fare con i lupi melanistici? Esiste la possibilità che il melanismo causato dalla mutazione al gene CBD103 conferisca vantaggi adattativi. In questo caso, peraltro ancora da accertare, la rimozione di lupi neri che, dopo approfondite analisi genomiche, non presentassero altri segni di introgressione, sarebbe ingiustificata e dovrebbe essere rigorosamente esclusa.